UN VIAGGIO IN MADAGASCAR FINO ALLA FINE DELLA TERRA: IL REPORTAGE DI VALENTINA

Spesso ci piace dire che le persone che ci scelgono per scoprire il Madagascar non sono turisti ma “viaggiatori”.

Può sembrare un’affermazione un po’ snob, ma sono proprio i nostri “viaggiatori” a confermarcela ogni volta. È il caso, ad esempio, di Valentina e Giorgio che ad agosto 2023 hanno fatto un bellissimo viaggio nel Sud del Madagascar fino alla “fine della terra”. Un viaggio che Valentina ha riportato meticolosamente giorno per giorno nel suo diario, che abbiamo fatto diventare un vero e proprio reportage.

Questo è il racconto del loro viaggio scritto da Valentina.

L’inizio dell’avventura – 4 agosto 2023

Dopo un lungo viaggio (siamo partiti il 3 agosto a tarda sera), comprensivo di infinita attesa stipati ad Addis Abeba e cambio di gate last minute da brivido, stile “Mamma ho perso l’aereo”, arriviamo ad Antananarivo e ci aspetta un altro brivido: la Visa ce la fanno a farcela o no? E la valigia? Manco fosse il Superenalotto…la gioia immensa nel vederla arrivare sul nastro!

Le Chat’ O Hotel è essenziale, dignitoso e si mangia bene…anche se lo zenzero nella zuppa di verdure non ci voleva! Adesso siamo alla fase: ma l’acqua bollente delle tisane la potremo bere? Vedremo…per ora ci rilassiamo e ci riposiamo, perché domani alle 8 arriva Haja, la nostra guida per iniziare questa nuova avventura!

Sugli altopiani centrali – 5 agosto 2023

Dopo una rigenerante dormita, alle 8 partiamo puntuali con Haja, la nostra guida parlante italiano. È molto simpatico, è del 1973 e guida bene (immensa fortuna) in mezzo alla giungla di strade malgasce e di locali con i mezzi di trasporto più svariati (carretti, bici, motorini, camion, auto, ovviamente tutti euro meno 6).

Imbocchiamo la RN 7 che ci accompagnerà fino a Tulear. Ci colpiscono le donne che lavano i panni nel fiume e li stendono sull’erba, gli equilibristi di ogni età che sulla testa trasportano qualunque cosa (mattoni compresi) come fosse banale, gli alberi altissimi con la profumata mimosa fiorita, gli scheletri di case mai ultimate (ci dice Haja: le costruiscono per marcare la propria terra, fanno male i conti e poi non si possono più permettere di finirle).

Attraversiamo le risaie, gli altipiani multicolori della terra rossa e i terrazzamenti ingegnosi per la coltivazione delle verdure (piselli, patate, patate dolci, cavoli…) e facciamo una sosta a Ambatolampy dove assistiamo a tutto il processo per la fabbricazione di paioli in alluminio. È stato istruttivo e ci ha dato una prima vera idea delle condizioni di povertà in cui vive questa popolazione…una sensazione di disagio, mista a tristezza, da un lato, e gratitudine dall’altro, di cui dovremo fare tesoro al rientro. Compriamo il nostro primo souvenir: un baobab in alluminio (abbiamo scoperto che ce ne sono cinque specie diverse) e Giorgio si cimenta nella prima trattativa commerciale…la prima di una lunga serie…

Sul tragitto siamo spettatori di molte famadihana (“riesumazione”): dopo qualche anno dalla morte (rigorosamente dispari), la famiglia ha l’usanza di riesumare il defunto con una grande festa per la comunità (musica, cibo…). La stuoia usata per mettere il nuovo sudario dicono porti fortuna.

I locali usano i pousse-pousse per muoversi: sono dei mini risciò che hanno anche la targa! Quelli tradizionali però sono trainati a mano. Ci sono poi i taxi-brousse, che percorrono le tratte più lunghe (anche mille km, da una regione all’altra), sono sempre affollatissimi (qui cambi l’idea europea della scala di molte cose…). Può capitare (com’è successo a noi) di vedere una bara con una bandiera: se è a destra è un morto recente; se è a sinistra è una riesumazione. La polizia li ferma spesso e si fa pagare una tangente; ci dice Haja che la corruzione qui è una piaga, tanto quanto la povertà.

Arriviamo ad Antsirabe e ci fermiamo per pranzo. Siamo al ristorante Zandina, un ristorante per “vasa“(gli stranieri bianchi); inutile specificare perché sia meglio non mangiare street-food in Madagascar ai vari hotely di cibo locale e così assaporiamo la nostra seconda deliziosa steak di zebù (un animale bovino con le corna ricurve e la gobba) con riso bianco e rosso locale e di dolce una mousse al cioccolato e un crème caramel (per un totale di € 20…).

Haja ci accompagna a fare visita ad alcuni laboratori artigianali: il primo fa miniature di biciclette con materiali riciclati (geniale), ne prendiamo una al papà. All’uscita siamo incantati dal suono di uno strumento tipico malgascio fatto con una canna di bambù e delle corde: il valiha. Ne compriamo uno…non può mancare nella nostra casa.

Ci ripromettiamo di non comprare più niente, ma infrangiamo il proposito dopo tre minuti: affascinati dalla lavorazione del corno di zebù (usano il motore di una lavatrice e degli scarti di jeans…incredibile anche questo), prima ci teniamo di ricordo il cucchiaino che hanno realizzato sotto i nostri occhi e poi mi innamoro di una composizione stilizzata di una calla e tre foglie con una piccola base a fungere da vaso, sempre frutto della lavorazione del corno di zebù…come faccio a non comprarla? La calla è il fiore preferito, mio e della mami. Ci dev’essere anche lei.

Soddisfatti e felici, arriviamo al Couleur Café ad Antsirabe, il nostro hotel per stanotte. La nostra sistemazione è un piccolo chalet con camino circondato da un giardino lussureggiante…niente male. Dimenticavo…Giorgio si rompe un’unghia e riesce a chiedere se può avere in prestito la carta vetrata che hanno usato per la lavorazione del cucchiaino dal corno di zebù da usare come limetta…è già un “local”… Ci prepariamo per la cena e ci godiamo poi un po’ di relax.

Direi che le premesse del viaggio sono buone!

Il lago sacro – 6 agosto 2023

Riposati, partiamo da Antsirabe alla volta del lago Tritrivia, incastonato tra le rocce a circa 1700m.

La strada si trasforma quasi subito in un tortuoso rosso tragitto accidentato, anche per il nostro furgone. Sono 25 km, ma ci impieghiamo un’ora, un’ora in cui il colore diventa quello della lava…quello che non scorderò è il saluto sorridente di un bimbo che avrà avuto due o tre anni: “Hey vasa!” e con la manina ci saluta…in quei momenti comprendi che non hai merito ad essere nato ad un latitudine diversa dalla loro…

Per raggiungere il lago, camminiamo in una foresta di conifere, accompagnati da Oliver. Il lago dall’alto ha la forma del Madagascar e il colore della speranza. C’è una pietra sacrificale dove i malgasci immolano animali per chiedere che i loro desideri si avverino, perché il lago è sacro.

Impariamo che ogni dialetto è quasi incomprensibile per chi non lo parla e ce ne sono 18 sull’isola (tanti quante le tribù, mentre le regioni sono 23)…quello della zona di Diego Suarez poi è il più difficile di tutti, ci dice Oliver. Dopo aver dato qualcosa alle bambine che vendono collanine, torniamo dalla stessa strada e ci fermiamo al lago Andraikiba, qui non ho grandi sensazioni. Aspettiamo che lavino il nostro furgone per proseguire nuovamente verso Antsirabe, dove visitiamo l’albergo termale inaugurato nel 1897 che ha ospitato in esilio il re del Marocco, accompagnati dal volo basso di un falco dal becco giallo (è giallo davvero). Haja mi mostra un albero di frangipane e ne raccoglie un fiore: ha un profumo che mi piace, come quello della vaniglia e del cacao, che però vengono coltivati nelle regioni a nord.

Per pranzo oggi mangiamo petto d’anatra, gustoso, ma mi devo sempre ricordare di chiedere se c’è quel maledetto zenzero! Ci aspettano due ore abbondanti di viaggio verso Ambositra (“zebù castrato”). I malgasci che camminano sul ciglio della strada, oziano, giocano o lavorano nei campi, le bancarelle variopinte con cibo locale, gli animali noncuranti che attraversano e le voragini sulla strada sono una costante; è il paesaggio a cambiare: diventa più brullo e roccioso, granitico, intervallato da torrenti talvolta limpidi, talvolta color ocra. Haja ci indica l’albero di Tapia (è resistente al fuoco e vive solo in tre zone del Madagascar), la Stella di Natale rossa fiorita, che qui è un albero vero e proprio, gli eucalipti, ma sono i fiori di loto a spuntare tra le risaie ad attirare il mio sguardo.

Arriviamo all’Artisan Hotel per le cinque di pomeriggio, giusto in tempo per la riattivazione della corrente in città. La camera è semplice, ma è sempre tutto pulitissimo e la cena accompagnata da una band locale è una piacevole  sorpresa.

Alla ricerca del lemure topo – 7 agosto 2023

Colazione veloce e si parte accompagnati da un cielo nuvoloso e da un clima piuttosto fresco; oggi dovremo percorrere 160 km, la stima è di sei ore, perché le condizioni della strada sono “brutte, brutte” (come dice Haja).

Giorgio e Haja vanno in banca a cambiare in ariary. “Mora mora” (“piano piano”, si pronuncia “mura mura”), li aspetto più di mezz’ora nel furgone…

La nostra prima tappa è la visita ad un laboratorio di lavorazione del legno. Un artigiano che realizza mosaici ci fa una dimostrazione e ci dona un cuore con cui faremo un portachiavi. Siamo stregati dagli scultori che intagliano i legni più pregiati al mondo (legno di rosa, ebano e palissandro). Intravedo per terra, nella polvere, una piccola statua bifacciale con il ritratto di due volti di donne dell’etnia Betsileo in palissandro, si vedono i colori più tipici del legno e l’artigiano ci spiega che le striature chiare non sono delle imperfezioni, ma sono parte della corteccia. C’è vicino il negozio del laboratorio, ma non ho occhi che per quest’opera. Diamo 80.000 ariary (meno di 20 euro) direttamente all’artista e Haja ci dice che così siamo sicuri di premiare il suo talento. Per me adesso è come se fosse uscito il sole.

Lungo il tragitto siamo accompagnati dai Betsileo con i loro pareo e i copricapo a cuffia di paglia multicolori, da alberi di mimosa, agave, eucalipti per il carbone, da pini giovani di un verde brillante e dal profumo dell’olio di geranio. Le case ocra punteggiano una tavolozza variopinta di colori brillanti; attraversiamo molti villaggi e incrociamo gli sguardi di adulti, bambini e anziani. Le loro espressioni ti colpiscono sempre e comunque profondamente: alcuni bambini sono sorridenti, speranzosi e ti fanno festa, altri chiedono l’elemosina al finestrino e i loro occhi hanno già il velo degli adulti.

Haja si ferma per il pranzo e noi restiamo nel furgone. Anche noi per mangiare, ma ci sono troppi bambini che bussano ai finestrini e ripetono: “Madame, la boîte!”, indicando la scatola con il riso, “Madame, le gateâu!”. A due di loro (uno ha lo sguardo furbissimo) diamo un panino ciascuno, ridono, li mettono in tasca e non li mangiano, poi ricominciano a picchiettare. Si chiude lo stomaco, smettiamo di mangiare. Ripartiamo e dalla strada ci saluta un bimbo down di pochi anni, ha un grande sorriso, ma a noi si stringe anche quel piccolo spiraglio di cuore che era rimasto aperto. Passano pochi minuti e una bambina allegra, canta e appena ci vede si sbraccia e grida: “Vasaaaa!”, e riesce a farci sorridere. È come essere su un’altalena (o forse sulle montagne russe): le nostre emozioni oscillano in sintonia con le loro.

Man mano che ci avviciniamo al Parco di Ranomafana, il paesaggio diviene più verde, fino a diventare una lussureggiante foresta umida, ma il clima è sempre molto fresco. Haja fa una sosta per una fotografia scenografica alla Cascata della Murna. Dopo qualche kilometro giungiamo al Thermal Hotel Ranomafana. È molto chic, sia la struttura, che il ristorante, che la camera. Approvato, super!

Poco prima del tramonto, partiamo con Fuhirana (significa ninfea), è un fenomeno ad avvistare camaleonti e lemuri. Riusciamo a vedere il lemure topo (il più piccolo), è su un ramo a mangiare foglie con gli occhietti neri vispi! Ma sono i camaleonti a farla da padrone: dal micro a quelli più grandi, maschi e femmine, ne vediamo molti e sono davvero affascinanti con quei colori e quegli occhi sporgenti! Riusciamo a fare delle bellissime foto e sulla via del ritorno ci attraversa un fossa, ma lo intravediamo appena, è troppo veloce.

Anche oggi una giornata da ricordare.

Nella foresta pluviale di Ranomafana – 8 agosto 2023

Il sonno è sempre rigenerante e oggi la colazione è particolarmente buona, siamo pronti per l’esplorazione della foresta secondaria del Parco di Ranomafana, che ha anche una foresta primaria. Questa però si può visitare solo se si dorme nel parco per uno o due giorni.

L’ambiente è molto umido, a tratti fangoso e la temperatura è veramente piacevole. Abbiamo subito la fortuna di vedere un lemure dorato (che di giorno dorme), non è facile vederlo, ci dicono. Poi è la volta di una coppia di lemuri dalla fronte rossa. Li vediamo da talmente vicino che evito per poco la loro pipì! Sono simpaticissimi, sembrano dei peluches con gli occhi vispi.

I lemuri dalla pancia rossa, sempre maschio e femmina, li incontriamo poco dopo. Ad ogni avviso della guida, ci si precipita, assai goffi rispetto all’agilità dei locali, tra liane e piante di ogni genere per trovare il miglior punto di osservazione, sembra di essere proprio nel cartone animato della Disney. E poco dopo infatti, ci saluta un trio di lemuri ballerini, tra i più grandi del parco, sono bicolore, bianco e nero.

Giunti al punto panoramico, ci fa compagnia una mangusta rossa (c’è anche quella bianca), uno dei pochissimi animali carnivori del parco e che condivide con noi uno spuntino. Ha un pelo lucidissimo, la coda a strisce sembra una pelliccia rossiccia e il musetto è particolarmente furbo.

Mentre torniamo all’ingresso del parco ci concentriamo sulla flora. Le orchidee selvatiche qui crescono a grappolo sugli alberi e fioriscono d’estate, ma i loro fiori si possono ammirare per poco, perché vengono mangiati dagli animali. Scopriamo che la parte nera dei bambù è urticante e che i malgasci hanno una pianta per curare ogni disturbo. Sentiamo il profumo delle foglie di pompelmo, dei fiori di sambuco e dello zenzero e vediamo un albero enorme e antichissimo di palissandro (quello della nostra scultura), mentre Giorgio tenta di duettare con un merlo fischiettante. All’uscita ci saluta un micro camaleonte. Il bottino della spedizione è stato ottimo!

Rientriamo e finalmente offriamo il pranzo ad Haja, che non aveva mai voluto finora. Il menù è a base dell’immancabile zebù (stavolta sono spiedini) con contorno di riso e verdure saltate. Osiamo la banana flambée come dolce (qui è tipico), ma è troppo zuccherata per i nostri gusti. Mandiamo un selfie alla figlia di Haja, che ci dice di farlo sempre con tutti i suoi clienti, così la sua famiglia sa con chi è. Giorgio si scopre amante del caffè malgascio (è arabica, meno forte del nostro e servito in una teiera in abbondante quantità).

Il sole che ci ha accompagnato con enorme fortuna in questa stagione impallidisce e noi decidiamo di addentrarci nel curatissimo parco dell’hotel, un labirinto di specie vegetali a noi sconosciute che ci riserva qualche sorpresa: scopriamo che aspetto ha il fiore del banano, siamo meravigliati da come cresce l’ananas, osserviamo da vicino un albero di Stella di Natale rossa e l’albero del viaggiatore, simbolo del Madagascar.

In attesa della cena, proseguiamo la lettura del libro La fine della terra di Massimo di Namatours (il tour operator solidale con cui abbiamo organizzato il nostro viaggio) e cominciamo ad abituarci al ritmo malgascio del “mora mora” (“piano piano”).

I lemuri di Anja – 9 agosto 2023

Oggi il sole splende e ce la prendiamo comoda, salutiamo la tribù dei Tanala (“Ala” significa “foresta”), il mercato di Ranomafana con le sue bancarelle di lungusa (un frutto rosso dalla forma allungata che ha un sapore aspro, come lo zenzero, ci spiega Haja), gli alberi con i formicai abbarbiccati sui rami e ci dirigiamo verso una delle zone più aride del Madagascar. Haja ci indica un edificio dai colori arancione, bianco e violetto: è un piccolo ospedale e ha i colori del Presidente.

Il paesaggio cambia decisamente: ci circondano forni di mattoni, risaie e distese arate dagli zebù, i colori sono quelli della terra e della fatica del lavoro nei campi. Costeggiamo la prima ferrovia, costruita in dieci anni durante il periodo coloniale agli inizi del Novecento (anche le case sono di quel periodo), che arriva fino a Manakara (centro economico importante nel sud-est dove vivono gli Antemoro, che producono la famosa carta), i binari però non sono a norma, sono troppo stretti, dice Haja, e i bambini li usano come pista per le macchinine. Ci accompagna fino alla città di Fianarantsoa, da cui la ferrovia parte e che ha la stessa struttura urbanistica di Antananarivo: una parte bassa, una intermedia e una alta. Si tratta di uno dei principali centri economici e amministrativi del Paese; qui si trova la fabbrica dell’unico marchio malgascio di automobili: la Karenjy. Ne abbiamo vista una a Ranomafana. In Madagascar le auto sono modelli molto vecchi di marchi principalmente francesi, tedeschi, cinesi, coreani e poi ci sono le Api, gialle, alcune sono della Piaggio, anzi no, ci dice Haja, sono delle imitazioni cinesi. Finora abbiamo visto una sola Fiat, una Tipo, come quella che avevamo quando ero piccola. Non ci sono marchi italiani, perché non si trovano i pezzi di ricambio.

Fotografiamo dall’esterno la Cattedrale (in questa zona la maggioranza è cattolica) e poi ci fermiamo a fare rifornimento, Haja pulisce i filtri del furgone e, mentre aspettiamo, arriva una donna che ci saluta e che deduciamo essere una persona importante, dall’abbigliamento, ma soprattutto dalla guardia del corpo armata. Ci mancano una cinquantina di km ad Ambalavao (“nuovo recinto”). Lazan I Betsileo e Mahitasoa sono i nomi del vini di questa zona, passiamo davanti alle cantine che li producono. Poco più avanti c’è un posto di blocco della polizia, Haja mostra i documenti e parla con gli agenti che gli dicono che fanno dei controlli, perché ci sono autisti che non pagano il bollo.

I disegni geometrici dei campi arsi color del fango asciutto, i gilet e i cappelli giallo fluorescente dei lavoratori agricoli delle associazioni, i covoni di fieno, i fasci appesi di corde bianchissime ricavate dall’agave e il volo di un Hitsikitsika (una specie endemica) ci accompagnano fino a un’indescrivibile tavolozza di colori, in cui ogni sfumatura del verde e del marrone è dipinta sullo sfondo del massiccio dell’Andringitra (alto più di 2.500 m).

Prima di arrivare in città, ci fermiamo in un laboratorio di lavorazione della seta. Una ragazza gentilissima ci spiega ogni fase della lavorazione: per la seta selvatica (più pregiata), si usa la foglia di tapia che viene bagnata in acqua fredda per due minuti; per la seta da allevamento si usa invece la foglia di gelso, che viene fatta bollire per mezz’ora. Le foglie vengono fatte poi essiccare per una settimana e di nuovo fatte bollire e macerare per tre giorni, stavolta con sapone di grasso di zebù e cenere per togliere la colla. In seguito vengono lavate in acqua fredda e fatte asciugare per una settimana. Seguono la filatura a mano e la colorazione con pigmenti vegetali (ad esempio la barbabietola per le tonalità del rosso, frutto della passione per quelle del verde, la curcuma per quello del giallo, la ninfea e il tamarindo per quelle del beige e marrone), tranne il blu che è artificiale. Il colore naturale della seta da allevamento è avorio lucido, mentre quello della seta selvatica è beige molto chiaro. Aloe e buccia di banana secca vengono utilizzate per fissare i colori. Alla fine del processo c’è la filatura. Sono necessari tre giorni di lavorazione e 400 grammi di seta per una sciarpa semplice, monocolore e fino a un mese per sciarpe con finiture più complesse multicolore. Ne compriamo due: una per Giorgio e una per il papà.

Pranziamo in un ristorante per “vasa” e ci aspetta la visita al laboratorio della lavorazione della carta Antimoro, nata dagli Arabi insediatisi sulla costa est, nei pressi di Manakara, ma è il francese Pierre Mathieu che, ad Ambalavao, ha l’idea di mettere i fiori freschi come decorazione nella carta. L’avoha è l’arbusto da cui la carta prende vita. Le fascine vengono fatte essiccare e stoccate, per poi essere bollite per quattro ore ed essere lavate in acqua fredda. Il composto viene picchiettato con un martello di legno per ottenere una sfera di pasta di carta del peso di circa 400 grammi, che viene distribuita uniformemente su un foglio di cotone di 150 cm di lunghezza per 75 di larghezza. In seguito l’acqua viene drenata e la pasta si fissa sul cotone. A questo punto si aggiungono fiori freschi di giornata sulla pasta umida, in base alla fantasia della compositrice. Per fissarli, sopra i fiori viene versata delicatamente la stessa pasta ma molto diluita. Sul grande foglio vengono tracciati i foglietti più piccoli ed esso viene fatto essiccare al sole o in luogo asciutto. Una volta secchi, è un gioco da ragazzi staccare queste piccole opere d’arte, di cui compriamo buste e biglietti per le occasioni speciali.

La giornata continua con la visita alla Riserva di Anja: il paesaggio è roccioso e ci addentriamo con le nostre guide alla ricerca dei Lemuri Catta (quelli con la coda a strisce bianca e nera). Ci imbattiamo subito in due camaleonti per poi sentire dei rumori di fogliame. Eccoli! Saranno una decina, alcuni più grandi, altri più piccoli che giocano, saltando da un ramo all’altro. Alcuni si rilassano, altri mangiano o si mettono in posa per i nostri scatti entusiasti, finché uno si avvicina a me, ad un palmo dal naso, che emozione! È come tornare bambini…

Dopo aver esaurito le pose fotografiche, proseguiamo e, mentre una famiglia di colibrì si alza in volo, arriviamo al punto più alto. Il panorama è magnifico: le montagne delle Tre Sorelle vegliano sulla riserva, sui campi, sulle risaie e sui Betsileo che sono sepolti nelle loro cavità. Sì, perché le tombe “definitive”, così le chiama la guida, sono nei buchi naturali della montagna e nelle tombe costruite nelle cavità più grandi, bianche e ben visibili a occhio nudo. Qui non c’è il culto della riesumazione, né quello di andare al cimitero.

Assaporiamo ancora un po’ di silenzio, avvolti dal vento e, circondati dalle piante grasse fiorite e dai Lemuri Catta, che corrono sulle rocce, ci avviamo sul sentiero del ritorno, attraversando una grotta in cui si dice abbiamo vissuto i Pigmei nella Preistoria e ammirando dei giganteschi e millenari ficus. Usiamo una corda per scendere dal punto più ripido, ma è ancor più divertente quando mi aggrappo di peso ad una liana intrecciata, come Jane (o forse Cheetah, scherza Giorgio). È incredibile quanto peso possano sostenere!

Tornati al punto di partenza, troviamo tre bambine, ma purtroppo abbiamo solo un panino da dar loro, così lo dividiamo con loro. “Merci“, mi dicono, con uno sguardo timido e dei timbri di voce di una tenerezza indimenticabile. Faccio una foto con loro, mi è venuta voglia di abbracciarle e lo faccio. Adesso può tramontare il sole su un’altra giornata da incorniciare.

Il Betsileo Country Lodge è isolato dal paese e usa la corrente dei pannelli solari e di un generatore, quindi ci chiedono di non sprecare energia e connessione wifi, limitata anche questa. Dopo tante emozioni, a noi importa poco. Il cielo sopra di noi, per la prima volta senza nuvole, è un’esplosione di stelle. Qui brillano davvero.

Benvenuti al Sud – 10 agosto 2023

Salutiamo le due divertenti rane che ci hanno dato il benvenuto nella nostra stanza e il grillo che ci ha tenuto compagnia nella notte, perché oggi ci aspetta il viaggio verso Ranohira, direzione sud. Lo condividiamo con una famiglia di Pordenone che ha scelto Namatours, come noi.

Nei villaggi la manioca viene fatta essiccare al sole e si susseguono i mercati di piantine di caffè, legno di rosa, avocado, limone, mango… La piana è un’enorme distesa di rocce, dominata dai colori della terra bruna, della terra rossa e dei cespugli d’erba ingiallita; fanno capolino i primi cactus e le prime palme. Le piantagioni di tabacco, i banani, gli arbusti e gli ultimi alberi sfidano impavidi il sole del Sud e per il momento sembrano avere la meglio, preservando il verde nei nostri occhi.

Durante una sosta fotografica diamo del formaggio a due ragazzini che si mettono in posa per uno scatto. Sullo sfondo il massiccio del Cappello del Cardinale, uno di loro fa il segno della vittoria, mostrerà il formaggio agli amici, è per questo che non lo mangiano subito, ci spiega Haja. Incontriamo i primi Bara, la tribù locale di origine Bantu che come rito di iniziazione ha l’usanza (oserei dire un po’ crudele) di far rubare gli zebù ai giovani maschi.

Attraversiamo il villaggio di Ambararata, nome derivante dal bambù che lo circonda e che viene impiegato per i recinti delle case e osserviamo i volti colorati dal giallo di un composto naturale utilizzato per proteggere la pelle dal sole. Entriamo nella città di Ihosy, è una bella cittadina colorata, sede di parecchi distaccamenti della gendarmeria e di uffici ministeriali (quasi surreale vedere il cartello del Ministero per lo Sviluppo Sostenibile…). Qui la benzina, che ha il prezzo imposto in tutto il Paese, costa 40 ariary in più a causa del trasporto.

Attraversiamo una vasta pianura dorata, poche sparute macchie di verde sopravvissute al dominio incontrastato degli Ihorombe (da cui il nome della piana), i cespugli d’erba alta dalla chioma biondo cenere. Delle chiazze nere interrompono l’uniformità della distesa: si tratta degli Ihorombe incendiati, soprattutto a dicembre, per farne germogliare di nuovi, affinché gli zebù se ne possano cibare, ma “non è buono per la terra”, scuote la testa Haja.

All’orizzonte il massiccio dell’Isalo, per terra (non più sugli alberi) le piramidi delle formiche e nel cielo ceruleo volano i falchi dal becco nero: anche loro hanno cambiato livrea. E a modo nostro, lo facciamo anche noi! Le felpe lasciano spazio alle maniche corte e il sole sembra dirci: “benvenuti al Sud!”

La polizia (loro ci danno il benvenuto a Ranohira) ci ferma per un controllo, qui i gendarmi sono grassi per la corruzione, scherza Haja. E aggiungo io, la popolazione inizia ad avere dei lineamenti diversi (sono meno diffusi i tratti indonesiani) e la pelle color dell’ebano. Pranziamo in un ristorante circondato da un lussureggiante giardino, tra il profumo della menta, della lavanda e del fiore di frangipane. Arriviamo al Satrana Lodge nel pomeriggio e Haja ci spiega che la satrana è una palma le cui foglie vengono impiegate per fare i tetti delle case, è impermeabile. La vista dal bungalow sul massiccio dell’Isalo è mozzafiato.

Salutiamo il sole dalla Finestra dell’Isalo, ma è al ritorno da questo affollato belvedere che i colori del arcobaleno danno il meglio di sé. L’arancione tinge le cime che si susseguono e il verde dei loro muschi, mentre il viola e il giallo spalancano le porte al blu della sera.

Non ci resta che aspettare le stelle e il pensiero va alle parole di Haja che, quando gli chiedo: “tu e la tua famiglia quando andate in vacanza?”, mi risponde: “a marzo o aprile, al mare ma vicino, non andiamo tutti gli anni, solo quando riusciamo, per noi è troppo caro”.

Tra i canyon dell’Isalo – 11 agosto 2023

Ci alziamo di buon’ora per iniziare la nostra escursione insieme a Giulio, Anna e Iris (la famiglia di Pordenone) nel parco dell’Isalo, con la sua sabbia stratificatasi e compattatasi nei millenni, a formare un panorama che sa di canyon e che uno sguardo da solo non riesce a racchiudere.

Nel tragitto Haja ci racconta alcune tradizioni dei Bara, che popolano la città di Ranohira, dove oggi (come due volte al mese) si svolge il grande mercato (che a malincuore include anche quello delle ragazze che si prostituiscono). Un Bara ricco è chi possiede mille zebù, sarà il più rispettato e avrà anche il diritto di scegliere se avere più mogli con quei due piccoli chignon bassi ai lati del capo. Curioso è il modo in cui i giovani segnalano il loro status di “single sul mercato” (qui più che altrove è proprio il caso di dirlo!): un ragazzo ha un pettine nei capelli, una ragazza delle mollette e entrambi indossano dei copricapo decorati e vistosi. Il ragazzo poi inizia il corteggiamento con un dono alla ragazza (basta anche un ombrello).

I doni che invece noi riceviamo da questa giornata sono molti e preziosi: il sole cocente, dei compagni di viaggio con cui abbiamo fatto grasse risate, un lemure che si è unito a noi condividendo il nostro fine pasto a base di papaia e un bagno (per dovere di cronaca io mi sono astenuta) nelle piscine naturali (quella blu e quella nera, più profonda), dove la delicatezza silenziosa della danza delle gocce tenta invano di trovare voce nel fragore dell’acqua in caduta libera delle cascate.

Ma il regalo più grande è senza dubbio l’aperitivo nel villaggio tutti insieme, con Titi (l’autista dell’altra famiglia italiana), Haja e la guida del parco. È stato un momento di allegria e condivisione spontanea con i locali, che giocavano ad un gioco simile alla briscola e con i bambini che ci hanno regalato dei mazzetti di fiori colorati. E poi sì, hanno voluto offrire loro: un gesto di impareggiabile caratura di cuore.

I primi baobab – 12 agosto 2023

Sempre di buon mattino, partiamo per l’ultima lunga tappa con il nostro furgone, accompagnati dagli affascinanti specchi di ventagli intrecciati delle palme Satrana e dai Bara che vegliano due enormi alberi del sacro tamarindo.

La prima tappa è la visita alla miniera di zaffiri ad Ilakaka, la città cosmopolita del mercato delle gemme “germogliata” (come dice letteralmente Haja) solo dopo la scoperta della miniera stessa. I cercatori scavano dei buchi nel terreno profondi fino a 16 metri e si calano con le corde fino al livello dell’acqua per capire se in quel punto ci sono delle pietre (zaffiri blu, bianchi, gialli, granata e altre). Se sì, avvisano il padrone che viene a verificare e decide se iniziare i lavori in quel punto, dove poi si scava manualmente fino a trovare l’acqua, che crea dei piccoli bacini. Le autopompe la drenano e i lavoratori raccolgono dei sacchi di terra che poi setacciano nell’acqua stessa con meticolosa (e oserei dire estenuante) pazienza.

Ci lasciamo alle spalle i cercatori di zaffiri per essere avvolti dalla pianura paglierina; sullo sfondo i profili dei rilievi si addolciscono e a quelli che non lo fanno sembra che una scure abbia tagliato nettamente la cima. Ora il verde diventa prezioso e raro come lo smeraldo nella tavolozza di colori caldi che ci circonda. Fiancheggiamo il parco di Zumbitse Vohibasia, paradiso per gli ornitologi e dove gli alberi si prendono la loro effimera rivincita.

Da lontano il primo baobab; in Madagascar ce ne sono cinque specie, ci dice Haja. Insieme ai cactus, diventano i nostri nuovi compagni di viaggio.

Attraversiamo il mercato di Sakahara, la terra dei Mahafali con le loro tombe a forma di barca e degli Atandroy e siamo già nella provincia di Tulear, anche se la strada da percorrere è ancora lunga. Le condizioni della strada sono veramente impegnative per Haja e si comincia a percepire il caldo malgascio. Lungo il polveroso tragitto, incrociamo un villaggio in cui, nonostante il divieto nazionale, è consentito produrre del rhum locale imbottigliato da sembrare acqua.

E l’acqua arriva, dopo circa cinque ore di viaggio: è il mare del Canale di Mozambico, che ci accoglie, insieme alle palme e alle mangrovie, a Toliary (la francese Tulear), “città del sole” attraversata dal Tropico del Capricorno, dove vivono i pescatori Vezo.

La città è un ingorgo festante di pousse-pousse colorati e di profumi di cibo alla griglia; noi optiamo per un semplice panino, così possiamo mangiare insieme e offrire ad Haja. La città è il crocevia per il turismo del mare, e l’esportazione dei suoi frutti è, insieme a quella del cotone, la principale attività economica.

Iniziamo la visita alla riserva delle tartarughe e dei baobab. La guida ci spiega che seguono un percorso di riabilitazione e reinserimento nella natura del Sud. Mentre ammiriamo i motivi stilizzati e geometrici dei loro carapaci, scopriamo tutte le piante officinali che ancora oggi curano l’80% della popolazione. Ammiriamo alcune delle specie endemiche di baobab ed è un esemplare di baobab Reniala, “la madre della foresta”, che vive da 600 anni ad esserne anche l’indiscussa regina. Verso sera il cielo si veste di giallo, di arancione e di viola, dando riposo alle piroghe sul mare e virando poi repentino sul magenta e sul rosso nelle mangrovie.

I pousse-pousse cigolanti, con le fioche luci e una cascata di stelle capeggiate dalla Croce del Sud (ci ricorda il mitico Haja) ci accompagnano fino all’Auberge de la Table, da dove domani ripartiremo per l’ultimo viaggio di andata.

Alla fine della terra – 13 agosto 2023

Oggi si parte per Anakao, l’ultima tappa del nostro viaggio. Haja ci accompagna alla partenza del motoscafo e con divertimento misto a stupore percorriamo l’ultimo tratto a bordo di un carretto trainato da zebù! Il viaggio è un surrogato di adrenalina: non sappiamo dove sono finite le nostre valigie (siamo gli unici a non averle a bordo) e avvistiamo una balena con il suo cucciolo, che sbuffando acqua in cielo, ci danno il benvenuto nella terra dei pirati, le imbarcazioni hanno proprio quello stile. Sì, perché, come racconta Massimo nel suo libro, qui i pirati ci sono ancora e non scherzano affatto. Ho sperato per un attimo di vedere Jack Sparrow alla reception (lo ammetto), invece troviamo Dario ad accoglierci, il proprietario del Peter Pan, che non ha nulla da invidiare al pirata della saga, quanto ad avventure e aneddoti da raccontare. E Adriano, suo figlio adottivo di quattro anni, energia pura.

Ci sistemiamo nel nostro bungalow vista mare, e che vista! Facciamo una passeggiata sulla riva: conchiglie dalle dimensioni mai viste, corallo rosso…il mare è sornione e il sole oggi si nasconde, regalando le più intense sfumature dell’azzurro, quando decide di trafiggere le nuvole. Mentre scrivo con le note del mare, incontriamo il nostro primo amico: è Satana (sì, ho scritto giusto), il cane di Dario, ha i tratti di un lupo. Giorgio gli lancia una conchiglia, lui gliela riporta e l’ha già conquistato. Satana si accuccia vicino a lui, cerca la sua mano con il muso e poi abbaia perché vuole che gli lanci il suo cellulare. Questo amore a prima vista tra Satana (letteralmente) e mio marito un po’ mi inquieta, ma lo prendo come un segno di buon auspicio. Se Giorgio addomestica Satana (nella sua accezione non canina) che si siede ai suoi piedi, siamo davvero nell'”Isola che non c’è”.

Aspettiamo che il sole cada dalle nuvole per il tramonto, mentre ritraggo Adriano e i suoi amici sull’altalena con le loro trottole (lui le chiama così) e le spassose risate. A farle risuonare nell’anima, tutto sembra possibile e chissà che un po’ sia davvero così.

I mari del Sud – 14 agosto 2023

Mora mora” (piano piano) oggi salpiamo con la nostra piroga alla volta dell’isola deserta di Nosy Satrana. Ci accompagnano le onde d’argento dei pesciolini saltellanti, la pianta che sbuffa violetto e le enormi stelle del mare colorate di corallo. Di certo qui sono state scritte le definizioni di “trasparente” e di “verde acqua”…quanta bellezza!

L’isola è un miraggio di pace, con la sua piscina naturale che sfoggia tutte le sfumature dell’azzurro e il panorama su un mare incantato, che ammiriamo mentre ci gustiamo una faraonica grigliata di pesce.

Ripartiamo per ammirare le suggestive mangrovie, gli alberi in superficie fino alle radici e ci attraversa il primo innocuo serpente.

È ora di rientrare, la tovaglia del pranzo, un patchwork di sacchi del riso, si trasforma nella vela sul mare che ora è del colore dello zaffiro, la pietra che giace nel ventre del Madagascar.

Nuotando con le megattere – 15 agosto 2023

A Ferragosto, dice Giorgio, non può mancare la grigliata in compagnia. E compagnia sia!

Dedichiamo la giornata all’escursione all’isola di Nosy Ve con Laura, Martino, Beatrice ed Edoardo. Prima missione: avvistamento balene. E una madre con un cucciolo ci regalano tanta adrenalina e tanta tenerezza. Danzano nell’acqua e ad un tratto riemergono a due passi (proprio due) dalla nostra piroga, uno accanto all’altro con una sincronia invidiabile. Ma è quando si girano entrambi a pelo dell’acqua, mostrandoci la madre l’enorme pinna e la sua pancia bianca e il piccolo il suo occhio vispo, che la commozione è dietro l’angolo. Il mare oggi si veste di azzurro e di blu e i giochi di sabbia e acqua dell’isola sono da togliere il fiato, insieme ai coralli e ai pesci multicolori della barriera. La compagnia è ottima e ci gustiamo una squisita grigliata di ali di razza.

Rientriamo con un mare più allegro di quando siamo partiti e assaporiamo il primo tramonto senza nuvole. Il sole cade in pochi attimi sotto la linea dell’orizzonte e il sentimento di gratitudine per un’altra giornata di festa (misto a languorino per la cena) ci accompagna per il resto della serata che ci regala l’emozione dell’intera Via Lattea a due palmi dal naso…e provi quel senso di meraviglia che abbiamo ormai perso travolti da quello che pensiamo essere l’unico modo di vivere.

I tramonti di Anakao – 16 agosto 2023

Ultimo giorno di riposo con vista, pranzo con fritto misto e fantastica mousse al cioccolato e pomeriggio di lettura.

Adriano ci saluta con un’ultima festante trottola sull’altalena al tramonto e iniziamo i preparativi per la partenza mattutina di domani. Alla fine della cena, Dario ci racconta una serie di storie da romanzo d’avventura e ci facciamo tutti insieme delle sane risate. Tentiamo invano di vedere un film prima di addormentarci per la nostra ultima notte con il rumore delle onde in sottofondo.

Il senso del viaggio – 17 agosto 2023

La giornata inizia di buon mattino con un brivido: il traghetto per Tulear arriva in anticipo e dobbiamo ancora chiudere le valigie…salutiamo e ringraziamo di corsa lo staff e il geco che ci ha tenuto compagnia al Peter Pan e ci imbarchiamo per un viaggio di un’ora da dimenticare…d’accordo c’era un po’ di vento, ma il ragazzo che guidava il motoscafo è davvero da bocciare.

Percorriamo il tratto sul carretto traballante e ad accoglierci finalmente il sorriso di Haja e di Fardalina, l’incaricata di Aid4Mada. Andiamo subito al supermercato per comprare qualcosa a Yvanna (la bambina che abbiamo adottato a distanza) e agli altri bambini della casa famiglia. Alla piccola che ha cinque anni prendiamo: uno zainetto per la scuola materna, un astuccio con gomma e matite, dei gessetti colorati con una lavagnetta, spazzolini colorati e dentrifricio, un kit da medico (è il suo sogno da grande) e una bambola con lunghi capelli neri (ama le bambole). Per la mamma e il fratellino invece del cibo e articoli per l’igiene personale e per lavare i vestiti. Per gli altri bambini invece delle caramelle e un astuccio con penne e quaderno per una bimba che oggi compie dieci anni.

Andiamo al villaggio e siamo guidati tra il labirinto di stradine in cui si alternano baracche di lamiera tagliente. Ci fermiamo di fronte ad una capanna con una stanza (saranno stati tre metri per tre), dove ci sono Yvanna, la mamma e il fratellino. Io Yvanna non la riconosco nemmeno; nella foto aveva i capelli scuri, uno sguardo sveglio e sorrideva. Quando la identifico vedo che ha i capelli cortissimi (forse perché ha avuto i pidocchi? Povera piccola) e uno sguardo spaesato e triste, da spezzare il cuore. Non parla e quando incrocio i suoi occhi profondi riesco a stento a trattenere le lacrime. Il direttore della casa famiglia spiega alla mamma chi siamo e lei sorride, avrà vent’anni non di più. Sul giaciglio un pacchetto di sigarette e un accendino con cui gioca l’altro bimbo che avrà circa un anno. Questa scena davvero ci ha veramente disorientato…

Giorgio è nella capanna (entrambi dentro non ci stiamo) e inizia a far vedere a Yvanna i nostri piccoli pensieri per lei. Fuori tanti bambini che, curiosi, cercano di vedere cosa sta succedendo e cosa ci facciano lì due Vasa. Le spiega come funziona il kit da medico, ma lei sembra far fatica a immaginare il suo futuro come tale (e non solo lei…), la magia della gomma che cancella la matita e inizia a disegnare un sole sulla lavagnetta e un cuore. La prima parola di Yvanna è proprio questa: al vedere il cuore rosso dice “coeur” e all’udirla dalla sua voce, il nostro si carica ancora di più di angoscia. Ma è quando le diamo la bambola dai capelli fluenti che il viso le si rasserena un poco, la stringe, accarezzandole proprio i capelli che probabilmente le starà invidiando e le dà un bacio. A questo punto il nodo alla gola diventa ingestibile. Riusciamo a fare una foto con lei che accenna un sorriso e ci dice sommessamente: “Merci”. Anche noi sorridiamo nella foto, ma è uno sforzo immane. Restiamo ancora qualche minuto con lei e poi salutiamo la sua famiglia e il villaggio. Cadrei nei luoghi comuni a indugiare su questa esperienza e sugli stati d’animo che ti trafiggono in quei momenti, quindi non lo farò. So solo che è una di quelle situazioni della vita che non puoi capire, se non sei tu a viverle in prima persona. È un luogo comune anche questo, ma è inevitabile.

La giornata prosegue con la visita alla casa famiglia di Aid4Mada. Appena scendiamo ci accoglie un gruppo festante di bambini e una di loro subito si presenta: “Je suis Clementine“, è lei che oggi compie gli anni e il suo sorriso è autentico questa volta. Mi abbraccia ed iniziamo la visita, insieme al direttore che ci spiega che ad oggi sei bambini sono seguiti da una ragazza di venticinque anni che fa da mamma a tutti e da un’educatrice. La loro casa (sottolineo…casa) ha due stanze pulitissime, colorate e in ordine. I bambini più grandi dormono in una, mentre quelli più piccoli e la mamma dormono nell’altra. Ci mostrano con orgoglio il loro orto e il recinto con alcune caprette, oche e galline. Ma il momento più felice è la festa di compleanno per Clementine nella sala polivalente: una torta bellissima, dei biscotti, le nostre caramelle e tutti insieme cantiamo la canzone di buon compleanno alla festeggiata che scarta i regali con gli occhi che brillano davvero. I bambini qui stanno bene, vengono seguiti per l’istruzione, l’ambiente è sano e sereno.

Il primo pensiero va a Yvanna e il direttore ci chiede se vorremmo che anche lei venisse qui. “Certo!”, gli rispondiamo speranzosi…ma questo potrà accadere solo quando ci saranno i fondi per costruire un’altra casetta per altri sei bambini. Costo attuale di realizzazione: circa 5.000 euro, perché l’inflazione ha fatto schizzare alle stelle il costo delle materie prime. 5.000 euro per iniziare a cambiare la direzione della vita di sei bambini. Chiediamo se c’è un modo per essere certi che i nostri aiuti arrivino ad Yvanna e che nessuno si approfitti di questo. Ci assicurano che l’associazione fa tutti i controlli del caso. Quando salutiamo tutti, il nostro cuore è un pochino più leggero.

Prima di pranzo, compriamo il regalo di compleanno per Silvia (un ciondolo con una pietra dura del Madagascar) e un paio di orecchini di piccoli zaffiri blu da un signore francese. Credo di aver incontrato il francese più gentile dei francesi. Pranziamo con Haja ed è l’ora di dirgli “veloma” (arrivederci). Ci chiede se siamo contenti del viaggio. Come non esserlo, è stato una guida superlativa e un compagno di viaggio insuperabile. Ci scambiamo i contatti, lasciamo una lauta ricompensa e gli regalo la mia collana con un ciondolo di pietra che dà forza (è questo il nostro augurio per la sua famiglia). Io l’avevo immaginata per sua figlia, ma lui mi chiede se la pietra va bene anche per gli uomini. Rispondo di sì e subito la indossa lui. Io e Giorgio abbiamo entrambi gli occhi lucidi di gratitudine. La differenza in questo viaggio, rispetto a tutti i nostri precedenti, l’ha fatta il popolo malgascio, sono loro che ti trascinano nel loro mondo così diverso dal nostro.

Bonne chance“, la scritta sull’ultimo pousse-pousse prima di arrivare all’aeroporto di Tulear per il volo interno verso Antananarivo. Che la fortuna (e non solo) benedica questo meraviglioso Paese.

Ritroviamo Gloria e Andrea, due nostri compagni di viaggio al Peter Pan, con cui condividiamo il volo interno per la capitale. Siamo fortunatissimi perché è puntuale! Ceniamo e ci riposiamo allo Chat’ O, che risale la classifica degli hotel e siamo pronti a ripartire il giorno dopo per tornare a casa.

Veloma Madagascar – 18 agosto 2023

Siamo in aeroporto in attesa di partire. Il pensiero va ad Yvanna e a tutti i bambini come lei. È impossibile aiutarli tutti, ma ognuno di noi nel suo piccolo può fare qualcosa, non sarà mai abbastanza però. E mi viene in mente una frase di Haja: “Questa è la vita”, ci dice con un tono da padre saggio e dolce al contempo. “Misaotra” (grazie), Haja. Quel frammento della nostra trascorso con te e il Madagascar è stato intensamente tra i più memorabili.

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